Dal nostro inviato Tino Mantarro.

Il 6 aprile all’Aquila non è ancora un giorno di primavera. Non lo è sugli alberi, spogli come in inverno, non lo è per la gente, sospesa come le foglie di Quasimodo. Sono passati due anni, ma il 6 aprile all’Aquila sembra ancora pieno inverno. La ricostruzione procede lenta e per qualcuno è addirittura ferma. “Siamo esattamente nelle stesse condizioni di un anno fa”, dice desolata Mara Quaianni. “Solo che rispetto a un anno fa abbiamo anche perso la speranza e siamo scoraggiati”. Il problema è presto detto: manca un’idea di futuro . E onestamente si fa difficoltà a capire quale sia quella del presente, a parte sopravvivere. Oggi 37.733 persone sono ancora fuori casa: sfollate, ricollocate, qualcuna è emigrata definitivamente.

L’impressione che si ha attraversandola nelle ore che preludono alla giornata del memoria è quella di trovarsi al cospetto di una città piena di vuoti. Camminando nel centro storico, transennato e al centro della zona rossa vigilata dagli alpini, riecheggiano ancora i propri passi, esattamente come un anno fa, quando qualcuno si avventurò a dire che il centro era stato riaperto. Di riaperto oggi ci sono una dozzina di bar che lavorano soprattutto con gli operai e i pompieri che stanno mettendo in sicurezza le decine di palazzi pericolanti, tre negozi tra corso federico II e corso principe Umberto, un paio di ristoranti che chiudono la sera, la parte che non è crollata di uno storico albergo e qualche banca. Rispetto a un anno fa alcune vie sono meno ingombre di ponteggi e calcinacci, ma basta girare un cantone e tutto torna al 6 aprile 2009.

“Alcune vie sono state riaperte, è vero: puoi camminare tra palazzi chiusi e vetrine sbarrate. Ma è la vita quella che manca”, spiega Maria Elena Del Pinto. Alla pasticceria Mameli in corso Garibaldi hanno riaperto il 9 ottobre. “Prima siamo stati quasi dieci mesi in un locale in affitto vicino all’uscita dell’autostrada. Non andava male, c’era un sacco di passaggio, si vendeva. Però l’affitto costava 2mila euro al mese, aggiungi le materie prime, la luce e il resto e il guadagno svaniva. Adesso che siamo ritornati qui passaggio non ce n’è, però i clienti abituali, gli aquilani che venivano prima, sanno dove siamo e tornano volentieri”. Ma a parte l’eroismo e la tenacia di qualche singolo che ha riaperto dove poteva la sua attività, il resto è vuoto. “Tre mesi fa si è fatta un’ordinanza comunale dove si diceva che in 12 mesi si sarebbero attivate le funzioni vitali del centro entro un anno. Ma in 90 giorni non si è iniziato nessun lavoro. Come possiamo credere ancora a queste cose?”, dice Quaianni. E così si avanti cercando di spostate l’ostacolo più in là, ma senza molta convinzione. “Stiamo a vedere i balletti dei politici che si rimandano le responsabilità, ma poi nulla cambia”, rincara Quaianni.

Uno dei problemi maggiori è che oggi L’Aquila è una città dispersa. “Quando si incontra qualcuno gli si chiede sempre ”, racconta Stefano Filauro proprietario del Punto Touring dell’Aquila. E quando si danno le indicazioni si dice sempre “lì dove c’era; vicino all’ex”. Solo che piano, piano i ricordi svaniscono e si inizia a confondersi. Così alle volte si fa fatica a capirsi, persi tra un “ma quello non era andato sulla costa?” e un “ti dico che ha riaperto al centro commerciale”. La vita di un tempo finisce per essere sopraffatta dalla vita precaria di oggi, e alla lunga c’è il rischio che ci si abitui a tanta precarietà. È per questo che sulle transenne del centro che chiudono la zona rossa tanti cittadini aquilani hanno attaccato fogli con pensieri, fotografie, poesie. Servono a non dimenticare, ma più che altro sono testimonianze e atti di dolore, propositi e grida di rabbia. “Venite a vedere, riferite la nostra cocciuta e ostinata voglia di riavere l’Aquila. Venite a vedere la nostra città morta”, recita uno di questi.

“All’inizio quando vedevo la gente che veniva a vedere l’Aquila distrutta quasi mi arrabbiavo”, commenta Filauro. “Poi col tempo ho capito che poteva essere importante la testimonianza che questa gente può portare a chi sa solo quello che sente dire in televisione. Certo, se li vedo farsi una foto davanti alle macerie mi arrabbio, ma quello sta all’intelligenza dei singoli”. “Venire all’Aquila oggi credo sia un ottimo esercizio per capire come funzionano tante cose in questo Paese”, aggiunge Manuela. “Qualche turista in questi mesi l’ho accompagnato, il giro oramai non dura più di due ore, vedi da fuori quel che puoi vedere, però credo sia importante che la gente continui a venire per poi testimoniare la realtà della nostra situazione”, spiega.

Una realtà che non è più quella dell’emergenza, ma non è neanche quella di un luogo normale. Oltre alle case e alle cose quello che si è perso all’Aquila sono le relazioni. “La struttura urbanistica di questa città con le sue piazze e le sue fontane era storicamente creata per convogliare e stimolare la socialità”, racconta Manuela. “Oggi quel ricco tessuto sociale si è perso. E ora come ora non si vede come possa ricostruirsi”. L’aggregazione per ora avviene principalmente nei centri commerciali dove si sono raccolti tanti dei negozianti che prima rendevano vivo il centro. Mentre nelle 19 zone dove sono stati sistemati i moduli del progetto Case gli spazi sociali mancano. “Qui c’era una vita vivace, socialmente e culturalmente. Ora non è rimasto quasi nulla”, continua Manuela. Fuori dal cinema Massimo, in corso Federico II, le locandine reclamizzano ancora “Gli amici del bar margherita” e “The milionarie”, oscar del 2009. Come tutte le attività del centro ha chiuso e non si sa quando e se potrà riaprire.

“All’interno dei complessi del progetto Case manca ogni struttura sociale. Un anno fa hanno messo le scuole, poi niente”, aggiunge Maria Elena, che di mestiere fa l’operatrice sociale. E il contraccolpo del terremoto oltre che sulle case ancora lesionate è forte e visibile sulle coscienze. Le statistiche dicono che il 40% degli aquilani prende ansiolitici. “Ma quello che le statistiche non dicono è che sono aumentati i suicidi, che ci sono centinaia di persone, soprattutto anziane, che si sono chiuse in se stesse. Che tanti hanno perso la speranza e non riescono ad avere un orizzonte cui guardare”.

Per non costringersi perennemente a guardare in dietro servirebbe allora un’idea per il futuro. “Servirebbe che qualcuno tirasse fuori un progetto concreto, che si prendesse la responsabilità di dire ‘questo si tira giù, questo si ricostruisce così’, invece tutto questo non accade”, spiega un carabiniere aquilano. “Invece stiamo perdendo tempo, stiamo incredibilmente perdendo tempo”. E così la rabbia cresce e il senso di disorientamento anche. La comunità si ritrova nei momenti di commemorazione, come durante l’intensa e silenziosa fiaccolata dalle notte del 5 aprile, conclusa in piazza Duomo tra i rintocchi della campane, che per 309 volte battevano a morto.

Ma alle volte servirebbero piccole cose per far tornare un po’ di speranza agli aquilani. “Non sentivo le campane da due anni. Io vivevo qui, vicino al duomo. E ogni ora sentivo i rintocchi della campane delle Anime Sante, di S.Maria Paganica, di tutte le chiese qua intorno. Questa è registrata, ma fa un certo effetto. Come fa un certo effetto essere qui questa sera”, dice Maria Elena. Fa un certo effetto rivedere una città piena di gente. “Sembra la festa della Perdonanza”, dice qualcuno. Se non fosse che gli aquilani non hanno nulla da farsi perdonare.