In canale di Sicilia come il Texas? Non proprio, ma quasi. Un paio di mesi fa il ministero dello Sviluppo economico ha dato il via libera a un progetto targato Eni ed Edison per nuove trivellazioni nel Canale di Sicilia. Un progetto cui si oppongono con forza le associazioni ambientaliste italiane, dal Touring a Greenpeace e al Wwf, e i comuni di Licata, Ragusa e Palma di Montechiaro che tutti insieme hanno presentato l'ennesimo ricorso al Tar del Lazio per bloccare l'autorizzazione conclusiva al progetto concessa dal Ministero.

II progetto Offshore Ibleo di Eni e Edison prevede due nuovi pozzi di esplorazione, una piattaforma e i relativi collegamenti sottomarini in una zona del Canale di Sicilia che si trova una trentina di chilometri al largo della costa delle province di Caltanisetta, Agrigento e Ragusa e interessa un’area di oltre 145 chilometri quadrati per 20 anni. Lo sviluppo dei giacimenti Argo e Cassiopea rientra negli accordi tra il ministero dello Sviluppo ed Eni per il mantenimento in attività delle raffinerie di Gela. A chi gli contesta l'operazione l'Eni risponde che «il progetto Offshore Ibleo porterà a una produzione di gas naturale di oltre 10 miliardi di metri cubi in circa 14 anni, contribuendo con 4,5 milioni di metri cubi al giorno al fabbisogno energetico italiano e benefici occupazionali per la Sicilia».

Numeri che però si scontrano con le preoccupazioni dei comitati locali e delle associazioni ambientaliste, stanche di un'idea di sviluppo che non persegue nuove vie e non valorizza l'esistente, ma si affida a sogni industriali altamente inquinanti e con ricadute minime a livello occupazionale sul territorio. «La rivolta dei territori e delle categorie economiche, come pesca e turismo, minacciate dalle trivelle è un segnale che il nostro governo non può ignorare: altro che “comitatini”, nei territori si sta consolidando una diversa prospettiva di crescita e sviluppo» dichiarano le associazioni.

«I proponenti il ricorso, come migliaia di altri cittadini che hanno firmato appelli contro le trivelle, ritengono che non si debbano mettere a rischio la diversità biologica del Mediterraneo in generale, e del Canale di Sicilia in particolare. È scandaloso che dagli studi di impatto ambientale redatti dai petrolieri scompaia il valore della biodiversità e che chi ci governa non sappia comparare gli scarsi benefici, e i molti rischi, che derivano dall’estrazione di idrocarburi, con il valore aggiunto e le ricadute sociali di attività come la pesca e il turismo, senza considerare poi le conseguenze sanitarie della filiera del petrolio, tristemente evidenti in realtà quali Gela e Augusta» proseguono le associazioni ambientaliste. La parola ora passa al Tar del Lazio.