Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni...

Ecco la quinta tappa. 

Nell'agosto del 1978 una delegazione svedese atterra nella Repubblica democratica di Kampuchea, lo stato comunista governato da oramai tre anni da Pol Pot e dalla sua banda di rivoluzionari educati in Francia. La delegazione è composta da due donne e due uomini. Tre hanno intorno ai trent'anni, un uomo oltre i cinquanta. Il più anziano è uno scrittore affermato, Jan Myrldal; gli altri un infermiere, una studentessa sposata con un rivoluzionario cambogiano e un giornalista. Cosa è la rivoluzione dei khmer rossi? È questo che vogliono scoprire nel corso del loro viaggio studio attraverso le terre cambogiane. Si tratta davvero il nuovo inizio di una società più giusta edificata sui principi del comunismo maoista?
Con il senno di poi, no. E non è che ci volesse molto a capirlo, anche con il senno di prima. Il regime di Pol Pot era tutto fuorché giusto, democratico e popolare. Eppure i quattro svedesi tornarono in patria entusiasti: descrivendo la rivoluzione khmer, la stessa che stava sterminando un quinto dei cambogiani, come un modello per tutte le democrazie del mondo. Com'è possibile ritrovarsi a percorre un Paese che giorno dopo giorno viene annientato dai suoi stessi governanti e non accorgersi di nulla? Com'è possibile vedere un idillio in terra laddove c'è un inferno? È questa la domanda che percorre tutto Il sorriso di Pol Pot (Iperborea, pag. 335, 17€) del giornalista e scrittore svedese Peter Frobert Idling.
Un libro che è tante cose assieme: un reportage alla ricerca dei testimoni di quel viaggio, un saggio sulla storia cambogiana degli anni Settanta, una biografia ben scritta di Saloth Sar, il nome in lingua khmer di Pol Pot. Ma soprattutto un esempio ben riuscito di come grazie agli strumenti della fiction ricerca storica, giornalismo d'inchiesta e viaggio si possano integrare. E integrandosi danno vita a un libro che nel raccontare un Paese riflette su molti interrogativi che ci si pone viaggiando. Ma è tutto vero quel che stiamo vendendo, o è solo una finzione creata per noi? Dove sta la verità: in quel che vediamo con i nostri occhi o altrove, ben nascosta nella foresta? E quando viaggiamo siamo davvero i protagonisti di quel che viviamo, o siamo solo marionette nelle mano delle guide che ci fanno vedere quel che vogliono?
Suggestivo, lirico, documentato il libro di Idling è un libro di storie e di domande. Domande che lo scrittore svedese pone e si pone di continuo mentre insegue i protagonisti di quel viaggio surreale tra comuni pieni di cibo mentre in realtà il Paese era allo stremo; con contadini che sorridono un attimo primo della prossima esecuzione. Un libro da mettere in tasca se si è in partenza per la Cambogia. O anche solo se si vuole capire come si possa costruire un reportage moderno, non rinunciando a scrivere bene.
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