Di sicuro c'è solo che cantano. Poi definire esattamente che cosa sia il Laulupidu, il festival della canzone estone che si è celebrato in questo fine settimana a Tallinn, è difficile come dare forma all'acqua. E' un festival musicale? E' una celebrazione patriottica? E' un'antica tradizione nordica che si rinnova? Una Sanremo baltica? Una festa popolare? E' una rappresentazione a uso e consumo dei turisti?
 
L'unica cosa certa è che non è per i turisti, ma è tutta per gli estoni. I turisti ci sono, attratti dall'esperienza inusuale di un popolo che invece di essere in cammino per due giorni si ferma, indossa i vestiti tradizionali e tira fuori la voce. Qualunque cosa suona retorica, esagerata, eccessiva. Il Laulupidu è una festa nazionale come non ce ne sono altre. Una festa che si celebra ogni 5 anni (questa era la 26esima edizione, la prima è del 1864) e unisce gli estoni di ogni età e strato sociale.
 
UNA FESTA PER TUTTI
C'è poco da far paragoni, da trovar eguali in Italia: nessuno rende. E' come una finale dei Mondiali, ma già sai che alla fine vincerai. E' un 25 aprile senza polemiche. Un corte sindacale che finisce in una festa di piazza. Un concerto del 1 maggio, però coinvolge lavoratori e padroni. Sia quel che sia è un gran momento. Oltre un decimo della popolazione estone oggi sta su questo prato. E in un Paese piccolo come questo fai presto: centomila persone tra gli spettatori, 30mila sul palco, divisi in oltre 600 cori. E ancora migliaia e migliaia lungo i cinque chilometri che dal centro di Tallinn portano all'auditorium della musica, una costruzione di matrice sovietica a metà tra Stadio olimpico e Circo massimo. Ogni famiglia estone ha qualcuno coinvolto. Chi non è qui è davanti alla tv, chi non è qui non è estone, o non è felice di esserlo.
 
LA SFILATA
Dalle due del pomeriggio, sotto un sole che finalmente ha preso a scaldare, sfilano a migliaia, organizzati nei cori che da sempre sono il cuore della musica estone, indossando i vestiti tradizionali, sventolando tricolori bianchi, neri e blu, ballando dietro alle bande, raccogliendo fiori dai passanti fino ad arrivare dopo oltre cinque chilometri al Laulavaljak, lo stadio delle musica dove tutto succede. E' qui, a una passo dal mar Baltico che dalle sei di sera si stringono gli estoni in una calca festosa e ordinata come mai uno penserebbe in una situazione del genere. Perché quel che colpisce, oltre all'onda emotiva che si solleva quando la sera di sabato il cielo si fa leggermente più buio, è l'incredibile compostezza in cui tutto si svolge. Come se le passioni, per gli estoni, fossero sentimenti da esprimere con pudore. Ognuno sa cosa fare e dove andare. Se c'è un limite viene rispettato, se c'è una regola quella è, se c'è una cosa da buttare si cerca un cestino. Se c'è da cantare, si canta. Perché le arie intonate dai 30mila stretti sul palco la prima sera le conoscono tutti. Sono quelle che hanno segnato la storia del Paese, canzoni di libertà, appartenenza, riconoscimento. «Questo è un momento per tutti noi, per dire chi siamo: per guardarci in faccia, stringerci, sentire la nostra lingua e celebrare la nostra libertà» raccontava lo scorso anno Hirvo Surva, direttore del festival.
 
Ed è incredibile constatare che quello che altrove suonerebbe come retorica stantia qui è invece vero e sentito. Perché ci sono davvero tutti, sul prato a cantare. Ma non è un canto intriso di ardore, come una qualunque canzone rivoluzionaria o nazionalista, è un canto mite, quasi sussurrato. Qualcosa che sta a metà tra una canzone di chiesa e un inno patriottico ottocentesco, come quelle canzoncine di Natale che tutti conoscono senza sapere neanche come e perché. Ma qui non è Natale. Non si scherza e non si improvvisa: non c'è uno che urli a squarciagola, uno che stoni. Qui è il numero che fa la forza e crea la suggestione di una sola moltitudine che canta. Trentamila persone sul palco che all'unisono recitano una canzone che sembra un inno alla gioia.
 
ESTONIA PATRIA MIA
Testi di cui ogni poco intuisci la parola Estii, Estonia. Perché il succo di tutto questo, è proprio questo. Parlare, cantare, festeggiare, sostenere l'identità estone e la sua libertà conquistata dopo decenni. E standoci in mezzo uno si fa prendere, si scopre incredibilmente nazionalista, a parteggiare per i piccoli che per secoli sono stati ordinatamente sottomessi da chiunque si alzasse la mattina e decidesse di passare da questo fazzoletto di terra piatta. Svedesi, lituani, russi, tedeschi: tutti hanno dominato l'Estonia e gli estoni, e a loro per secolo non restava che mettersi a cantare. Era l'unico modo per tramandarsi le storie, saghe nordiche non scritte di un popolo che non ha paura a definirsi per molti versi pagano, adoratore dei boschi, del mare, della natura.
 
Ed ha un che di festa pagana in effetti questa serata calda che pare non finire mai. C'è anche una torcia e un braciere, nella coreografia un poco marziale che si svolge durante l'inaugurazione. Una fiamma arde in alto, su un tripode di cemento. Sotto, nel prato, sul palco, gli estoni fremono per iniziare a cantare. Quattro ore passano tra un'ovazione misurata, un applauso ritmato, uno sventolio di tricolori: mentre la voce della presentatrice che nascosta nella sua cabina chiama i maestri che guidano i cori e i cui nomi sono acclamati come quelli delle rock star. Verso la fine sul palco arriva Tonis Magi e tutti intonano Koit, la canzone che ha animato la rivoluzione cantata con cui gli estoni a fine anni Ottanta si ribellarono all'oppressione sovietica. Allora tutti si alzano in piedi, gli occhi si fanno lucidi, c'è chi si abbraccia, chi si commuove, chi piange. Gli imperscrutabili estoni si commuovono, una nazione intera si scioglie. Adulti, adolescenti, attempate e sorridenti signore per cui la libertà doveva essere un sogno, e biondissimi bambini nati quando l'Estonia era nell'Unione. Non c'è uno che non canti, stasera. E allora viene davvero voglia di accodarsi a questa unica, sola moltitudine che dopo quattro ore intona Mu isamaa on minu arm, la mia patria è il mio unico amore. E iniziare a cantare.
 
 
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