Sotto l'ombrellone, ma anche in aereo, treno, tenda o amaca, un buon libro è il compagno di viaggio ideale. Soprattutto se sa unire la suspance di una spy story con l'intensità di un racconto di guerra.
"Il simpatizzante" di Viet Thanh Nguyen (Neri Pozza, 512 pag., 18 euro) - Pulitzer per la narrativa 2016 - è tutto questo e molto altro ancora. L'autore, nato in Vietnam nel 1971 nel bel mezzo del conflitto, viene trasferito con la famiglia, nel 1975, negli Stati Uniti dove cresce, studia e diventa professore universitario e scrittore. L'abbiamo incontrato a Milano in occasione della Milanesiana.
La guerra del Vietnam è stata una delle più raccontate da film, libri, foto, persino canzoni. È sempre mancato però il punto di vista vietnamita...
Io sono arrivato negli Stati Uniti che ero ancora bambino, sono cresciuto come rifugiato, ma mi sono intriso di cultura americana, compresi tutti i film sulla guerra del Vietnam, ma ne vedevo i limiti del racconto da una sola prospettiva, quella americana appunto. Ero circondato da profughi, da storie, da esperienze dell'altro lato e ho scritto il libro pensando a entrambe le prospettive. Avere un unico punto di vista conduce ad altre guerre e capire il punto di vista dell'avversario le evita. Per me il dualismo è normale e necessario.
È mai tornato in Vietnam?
La prima volta che ci sono tornato era il 2002 e l'ultima nel 2012 per un totale di cinque o sei viaggi molto diversi tra loro. Prima ci sono stato come turista e il Vietnam può essere davvero divertente così. Poi ci sono tornato da studente e ricercatore e sono andato oltre gli stereotipi da turista. È senz'altro un Paese bellissimo ma, sotto la superficie, è pieno di contraddizioni. Si dichiara comunista ma punta al capitalismo più sfrenato dove le differenze sociali si stanno facendo sempre più estreme. Non è un Paese che ha dimenticato il suo passato, ma i giovani fanno fatica ad affrontarlo anche perché la storia, anche in questo caso, è raccontata da una sola prospettiva, quella dei libri del governo comunista.
Sulla scena letteraria americana recente si stanno affacciando romanzi di autori nuovi, spesso con radici diverse, provenienti anche da molto lontano come lei...
Crescendo negli Stati Uniti ero cosciente dell'importanza dello storytelling, ma mi sono sentito spesso escluso dalla letteratura americana. Oggi nuovi autori stanno dimostrando che mostrare le complessità del mondo contemporaneo è un dovere. Mostrare le contraddizioni del passato e presente americano. Penso a Toni Morrison, a Colson Whitehead a Junot Diaz. Tutti stiamo contribuendo a cambiare la percezione della letteratura americana e degli Stati Uniti stessi.
La letteratura assume nuovamente un ruolo politico.
Decisamente sì. Io mi sono sempre visto come uno scrittore politicizzato. Non posso farne a meno. I miei genitori, da quando sono negli Stati Uniti, hanno lavorato 12-15 ore al giorno per permettere a me e mio fratello di andare all'università. Scrivere del nostro Paese d'origine e della guerra l'ho sentito come un dovere morale e sociale. Molti miei colleghi hanno capito che proprio visto l'approccio contro tutti i principi della letteratura di Trump è giusto impegnarsi politicamente a favore della cultura che è l'unica cosa in grado di abbattere muri e confini.
E il prossimo romanzo?
Ci sto lavorando. È il sequel de Il simpatizzante, ma si svolge in Francia, negli anni Ottanta. Segue il filone mezzo francese del protagonista del primo libro e analizza l'impatto del colonialismo francese sulla guerra del Vietnam. La spy story continua, ma la vera domanda che mi sto ponendo è: come continuano le rivoluzioni dopo le rivoluzioni?