Che l’Italia sia un Paese per viaggiatori lo pensavano un po’ tutti già nell’Ottocento. Poi sembrano essersene dimenticati in tanti. Non il Touring Club Italiano e non, si direbbe, il ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini. Sembra strano, eppure - è storia - negli anni ministri e governi non sembrano aver creduto nella cultura e nel turismo. «Mentre io ho sempre voluto andare a ricoprire questo ruolo, fin da quando nel 1994 ero assessore proprio alla Cultura e turismo a Ferrara» racconta Franceschini durante una visita informale al Touring. Visita che si è tenuta questa mattina nel palazzo di corso Italia 10, alla presenza del presidente Franco Iseppi, del direttore generale Lamberto Mancini, della dirigenza e della redazione di Touring.

 
CULTURA E TURISMO, ACCOPPIATA VINCENTE
Su un altro punto Touring e Franceschini si sono trovati in sintonia: la ripresa di questo Paese passa necessariamente da un investimento in cultura e turismo. «Fin dalla mia prima conferenza davanti al Quirinale il giorno dell'insediamento ho detto che ero felice di essere a capo del più importante ministero per lo sviluppo economico del Paese e lo confermo ancora: cultura e turismo sono le basi della nostra crescita» spiega Franceschini. «Sono due facce della stessa medaglia: non c’è confine tra l’uno e l’altro» sostiene il ministro mentre passa in rassegna il suo anno e mezzo di attività alla guida dei Mibact. «Il settore cultura aveva bisogno di una riorganizzazione, ma sostanzialmente aveva una sua struttura ben consolidata. Per quanto riguarda invece la parte turismo del Mibact, l’abbiamo dovuta ripensare completamente perché in sostanza non c’era» spiega. In questi anni il dipartimento del turismo ha girovagato senza fissa dimora, venendo accorpato come funzioni ora a un ministero, ora alla Presidenza del consiglio, quasi che il turismo (e la cultura) fossero la cenerentola nelle politiche di sviluppo di questo Paese e non il punto da cui partire.
Qualcosa cui invece sembra credere Franceschini che pur non negando i tanti problemi da risolvere - dalla ristrutturazione dell’Enit per arrivare finalmente a una promozione unitaria del prodotto Italia, fino a un ripensamento delle politiche turistiche legato alla revisione delle competenze regionali - pensa al futuro e alle sue sfide. «Dobbiamo prepararci a gestire l’enorme crescita del turismo internazionale nei prossimi anni. Ogni anno milioni di persone che non hanno mai lasciato il proprio Paese si affacciano sul panorama mondiale e a queste dobbiamo pensare. Come li gestiremo? Come attireremo i loro flussi? Come possiamo fare che tutte queste persone non si limitino a visitare il centro storico di Roma-Firenze-Venezia e si diffondano invece su tutto il territorio?» si chiede Franceschini. «Dobbiamo pensare a come portare questa massa di gente a conoscere tutto quell’immenso museo diffuso rappresentato dal nostro Paese. Dobbiamo sfruttare le potenziali del Sud che per ora raccoglie solo il 10% degli arrivi e pensare a un disegno strategico che moltiplichi l’offerta turistica» sostiene.
OSPITALITA' DIFFUSA E ITINERARI
Per farlo però dobbiamo prima aver ben chiaro il tipo di turismo cui puntiamo. «Dobbiamo puntare sulla parte alta degli arrivi, che non vuol dire una pregiudiziale di classe, ma piuttosto un’offerta che sia alta: di qualità e d’eccellenza». Non fossero parole già pregne di altri significati si potrebbe dire che l’Italia debba «puntare su un turismo sostenibile, che sia allo stesso tempo smart e slow». Ma forse una parola, uno slogan che renda bene questo tipo di turismo in realtà va ancora trovata. Ma se sulla parole bisogna ancora discutere sulle linee di sviluppo di questo nuovo turismo italiano, Franceschini sembra avere le idee ben chiare. «Dobbiamo puntare sull’ospitalità diffusa: qualcosa che sia realmente italiana e non standardizzata. Che permette al viaggiatore di fare una vera esperienza italiana. E dobbiamo puntare sugli itinerari che permettano di scoprire davvero il territorio. Pensi ai cammini come la via Francigena o il cammino di Francesco; alle ciclabili come Vento; ai sentieri equestri e perché no anche alle strade per motociclisti, come la Cisa. Oppure le linee ferroviarie poco trafficate che attraversano l’Italia interna: 2mila chilometri dove passa in media un treno al giorno».
IL RUOLO DELLO STATO E IL RUOLO DEI PRIVATI
Quel che è certo è che non può certo essere lo Stato a far tutto. «Noi possiamo creare la strategia, individuare i progetti su cui investire, ma poi deve essere il privato a fare la sua». Magari favorito dalle politiche di coesione e sviluppo che può portare avanti lo Stato sfruttando i fondi europei. «Con il Pon cultura vogliamo investire 490 milioni di euro in recupero del patrimonio e industrie culturali creative. Mentre con i Fondi di sviluppo e coesione oltre a investire nei grandi attrattori culturali vogliamo anche mobilitare tutto quel che c’è intorno, perché non basta avere un grande museo se poi vicino non ci sono le strutture per ospitare degnamente i turisti che vogliamo portare» spiega. Per farlo l’unica strada è collaborazione tra pubblico e privato. «Per esempio lavoriamo alla creazione di bandi di gestione dei siti culturali minori per far sì che vengano affidati alle organizzazione no profit del territorio e non alla macchina spesso inefficiente e burocratica dello Stato» aggiunge il ministro. Una strada che il Touring persegue da tempo attraverso tutte le sue iniziative e pubblicazioni. Perché che l’Italia sia un Paese per viaggiatori lo andiamo dicendo da tempo, almeno 121 anni.

(foto di Nicola Bertasi/Hans Lucas)